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Giovanni Carrù: la scelta di Pilato nell’arte paleocristiana

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Giovanni Carrù, sacerdote dal 1972 e nominato Segretario della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra dal giugno 2009, è giornalista pubblicista.

Nel marzo 2013 pubblica per L’Edizione Quotidiana l’articolo su un’importante iscrizione, rinvenuta nel 1961, che riportava il nome di Ponzio Pilato.

Giovanni Carrù

Davanti a un giudice tormentato
Di Giovanni Carrù

Nel 1961, una missione italiana, nel corso di una campagna di scavo a Cesarea, il porto della Giudea, rinvenne un’importante iscrizione che, pur in maniera frammentaria, riportava il nome di Ponzio Pilato, prefetto romano proprio in Giudea tra il 26 e il 36 dell’era cristiana. L’ iscrizione, incisa su pietra locale, è stata recuperata, come elemento di reimpiego, in un teatro romano del III-IV secolo.

Questo importante rinvenimento rappresenta una controprova monumentale del prefetto di ordine equestre, sposo di Claudia Procula, amico di Tiberio, divenuto celebre per il processo di Gesù (Matteo, 27, 1-26; Marco, 15, 1-5; Luca, 23, 1-25; Giovanni, 18, 28-40; 19, 1-6), come testimoniano precocemente i Padri della Chiesa a cominciare da Giustino (Apologia, 1, 25) e da Tertulliano (Apologeticum, 21, 24) e continuando con Eusebio di Cesarea (Historia ecclesiastica, 2, 2, 1). Tutte queste testimonianze tendono, generalmente, a giustificare il comportamento di Pilato durante il processo.

L’ episodio saliente del lavaggio delle mani, riportato solo da Matteo e commentato ancora dalla letteratura patristica, ma anche da quella apocrifa (Vangelo di Pietro, 1, 1; Atti di Pilato, 9, 4), viene rappresentato nell’ arte cristiana, a cominciare dall’ età costantiniana, in un gruppo di trenta sarcofagi di manifattura romana detti “sarcofagi di passione”, in quanto riportano sulla fronte le scene della passio Christi, alternate a quelle relative al martirio dei principi degli apostoli. Tutte queste rappresentazioni trovano il loro significato e la loro soluzione nel simbolo centrale della croce monogrammatica, segno inequivocabile della resurrezione di Cristo.

In questi sarcofagi, che, in un secondo momento, alla fine del IV secolo, verranno anche prodotti nelle officine di Arles si ripete, sempre secondo lo stesso schema, con poche impercettibili varianti, la scena che vede come protagonista Pilato, seduto su una sontuosa cattedra drappeggiata, o anche su un più semplice sedile da accampamento, vestito in abiti militari. Il prefetto mostra sempre un atteggiamento malinconico e porta la mano sinistra al mento, secondo un gesto caro all’ arte antica, per esprimere smarrimento e tristezza. Attorno a lui si situano alcuni personaggi e, in particolare, l’ adsessor, pure seduto e rappresentato quale garante dell’ atto processuale. Anche questo personaggio mostra un sentimento di estremo dolore, in quanto si stringe le ginocchia con le mani, secondo una gestualità già sperimentata nelle rappresentazioni della tragedia greca, per indicare l’ acme del dramma che si sta consumando.

La scena è completata dall’ inserimento di un servitore addetto alla lavanda delle mani che reca una brocca e un bacile. Non sempre la rappresentazione comprende la figura del Cristo, facendo assurgere la scena ad una situazione isolata, che vuole fotografare il dramma interiore di Pilato, attorniato da pochi personaggi, tra i quali alcuni militari o la moglie, che – com’ è noto – cerca di allontanare Pilato dal grave giudizio, in quanto turbata da un sogno premonitore (Matteo, 27, 19).

L’ episodio, che, in epoca più tarda, ovvero dal V secolo in poi, apparirà anche nelle arti minori, ossia nella lipsanoteca di Brescia, nella porta lignea di Santa Sabina, in alcuni avori, nel celebre codice di Rossano, nel ciclo cristologico di Sant’ Apollinare Nuovo e nel codice miniato di Rabbula, propone – come si diceva – il medesimo schema, ambientando, in taluni casi, la scena dinnanzi al praetorium, residenza del governatore.

La drammatica storia di Pilato, inserita nei sarcofagi più antichi, in una significativa teoria di situazioni più o meno violente e, comunque, riferibili alla istruttoria della condanna a morte del Cristo, di Pietro e di Paolo, ci accompagna verso un’ interpretazione paradossale dell’ episodio, specialmente se consideriamo che, negli stessi contesti figurativi vengono inserite scene che suggeriscono la regalità del Cristo e la sua vittoria finale, per il tramite della resurrezione.

Succede anche che la scena del lavaggio delle mani di Pilato sia accostata all’ ingresso di Cristo in Gerusalemme. Un episodio che, com’ è noto, sottolinea lo spirito trionfalistico della plastica funeraria costantiniana e un simbolismo imperiale, suggerito da questo solenne adventus regale.

Nel faccia a faccia tra Cristo e Pilato si deve, dunque, indovinare un dialogo tra potenti, intendendo con questo un confronto diretto e drammatico tra l’ autorità civile turbata e disorientata e la regalità semplice e sincera della testimonianza della verità, che non teme il giudizio degli uomini, seppure potenti, autorevoli, detentori di una dignità che si elide dinnanzi a chi si avvia verso una passione annunciata, ma anche verso la vittoria finale.

Fonte: L’Osservatore Romano

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